Psicologia

La sindrome di Stoccolma: quando l’ostaggio si innamora del rapinatore

Cosa è la Sindrome di Stoccolma? Perché la sindrome prende questo nome? Come si manifesta questa sindrome? Tutto in questo articolo!

Gli esperti definiscono la sindrome di Stoccolma come un particolare stato di dipendenza psicologica/affettiva . La vittima, durante i maltrattamenti subiti, prova un sentimento positivo nei confronti del suo aggressore.

Quest’ultima arriva ad instaurare un legame forte e di totale sottomissione volontaria. Addirittura una sorta di rapporto di alleanza e solidarietà con il suo carnefice.

Molto spesso la sindrome di Stoccolma può essere ritrovata nelle situazioni di violenza sulle donne e negli abusi sui minori. È infatti statisticamente più frequente nelle donne, nei bambini, nelle persone particolarmente devote ad un certo culto. Ma anche nei prigionieri di guerra e nei prigionieri dei campi di concentramento. Circa l’8% dei casi di sequestro di persona è caratterizzato dal fenomeno della sindrome di Stoccolma.

Nonostante sia definita come una sindrome, in realtà non è considerata una patologia clinica. Non rientra nelle malattie psichiatriche, poiché secondo gli specialisti del settore non presenta i requisiti necessari per essere inserita nei manuali di psichiatria. Durante la stesura della V^ edizione del DSM (manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) gli esperti hanno preso in considerazione l’idea di inserire la sindrome di Stoccolma in una sezione specifica dell’opera.

Si è optato poi per l’esclusione per mancanza di studi scientifici validi. Si è considerato che, di fatto, sentimenti positivi come empatia, affetto, amore, ecc. non possono essere classificati sintomi specifici di un disturbo psichiatrico. Anche se essi siano rivolti ad un aggressore/sequestratore. Non rientrando dunque tra le condizioni psichiatriche non ci sono criteri validati per poter formulare una diagnosi vera e propria e non richiede una terapia specifica.

Perché la sindrome prende questo nome?

Era il 23 agosto 1973, quando due detenuti evasi dal carcere di Stoccolma (Jan-Erik Olsson di 32 anni e Clark Olofsson, 26 anni) tentarono di rapinare la “Sveriges Kredit Bank” prendendo in ostaggio quattro impiegati (tre donne e un uomo). Ma qualcosa non andò come dovuto e il fatto di cronaca conquistò le prime pagine di tutti i giornali.

Furono 5 giorni molto intensi. Durante i quali, mentre la polizia cercava di trattare il rilascio degli ostaggi, all’interno della banca nasceva un rapporto di affetto reciproco tra sequestratori e vittime, uniti dalla volontà di proteggersi a vicenda. Questa sorta di convivenza forzata terminò poco prima di sei giorni. Dopo i quali i malviventi si consegnarono alla polizia senza nessuna risposta di forza. Mentre le vittime furono rilasciate senza alcun atto di violenza da parte dei sequestratori.

Fu il primo caso in cui le vittime vennero supportate anche a livello psicologico dopo il sequestro. Dai colloqui emerse proprio questo enorme paradosso: le vittime temevano di più l’azione della polizia che non i loro sequestratori, nei confronti dei quali invece provavano un sentimento positivo. Tanto grande da essersi recati successivamente nel carcere a fargli visita e addirittura una delle impiegate divorziò per potersi poi sposare con uno di loro. Durante i colloqui psicologici, le vittime riferirono di essere in debito con i loro sequestratori. Poiché non avevano fatto loro del male, più di quanto avessero potuto e avevano “restituito loro la vita”.

Il fatto di cronaca sviluppò un grande interesse da parte del criminologo e psicologo Nils Bejerot. Quest’ultimo coniò il termine “sindrome di Stoccolma” per definire quella reazione paradossale emotiva al trauma sviluppata automaticamente a livello inconscio legata all’essere “vittima”.

Ma come si manifesta questa sindrome?

I comportamenti che manifesta chi sviluppa la sindrome di Stoccolma sono del tutto singolari.

La vittima di sequestro o di un atteggiamento aggressivo o di altri tipi di violenza:

  • Dimostra sentimenti positivi come simpatia, empatia, affetto e talvolta innamoramento nei confronti del sequestratore/carnefice
  • Rinuncia alla fuga anche avendone la possibilità
  • Rifiuta di collaborare con la polizia o con le autorità nei confronti dei quali prova invece dei sentimenti avversi
  • Prova a compiacere i rapinatori/aggressori (comportamento frequente negli ostaggi/vittime di sesso femminile)
  • Legittima e discolpa i comportamenti e l’operato del sequestratore
  • Si sottomette volontariamente al volere del sequestratore
  • Rifiuta di testimoniare

La comparsa di tale sindrome è direttamente dipendente dalla personalità del sequestrato. Essa, infatti, insorge in personalità fragili, non ben strutturate, poco solide, mentre chi ha un carattere forte e dominante sarà meno predisposto a manifestarla.

Durante i rapimenti di soggetti delicati in genere il sequestratore effettua una sorta di lavaggio del cervello. L’obiettivo volta a depersonalizzare la vittima spingendola a credere che nessuno arriverà a salvarla.

Dunque una prima fase comune a tutti coloro che rientrano nella sindrome di Stoccolma è un contatto “positivo”. Questo contatto si innesca inconsciamente con coloro che sì, li privano della libertà, ma che potrebbero abusare o maltrattare ancora di più le loro vittime ma non lo fanno.

Tutto questo non deriva dall’idea di esercitare un comportamento favorevole e vantaggioso nel “farsi amico” il sequestratore, ma è assolutamente una scelta non razionale che si innesca come meccanismo automatico legato all’istinto di sopravvivenza.

Insomma, per garantirsi la grazia del suo aguzzino la vittima elimina inconsapevolmente ma in modo conveniente dalla sua mente il rancore nei suoi confronti.

In questa condizione il rapitore avrebbe meno motivi per scatenare la sua violenza contro la vittima. In effetti, è stato riscontrato che la sindrome di Stoccolma favorisce la sopravvivenza dei soggetti rapiti.

Dopo un primo stato di confusione e di terrore, la vittima reagisce allo stress “negando”. La negazione, infatti, è un rifugio psicologico primitivo che la mente utilizza per poter sopravvivere: non sta succedendo.

Un’altra possibile risposta è la perdita dei sensi o il sonno immediato, indipendente dalla volontà del soggetto. Quando la vittima inizia ad accettare e a temere realmente per la situazione che sta vivendo, la sua psiche trova un altro appiglio: verrà qualcuno a salvarmi.

Questo è un passaggio molto importante, poiché crea nella vittima la certezza che siano le autorità ad intervenire e a portarla in salvo. Il tempo spesso viene percepito in modo errato. Dunque più il tempo passa più nella vittima si innesca un sentimento automatico che tende a rinnegare le autorità e l’aiuto che tarda ad arrivare e resta latente.

Le cause precise che determinano la sindrome di Stoccolma non sono ancora chiare. Tuttavia molti studi sull’argomento hanno dimostrato come ci siano delle condizioni di base/situazioni specifiche comuni, che sono determinanti allo sviluppo della sindrome.

Queste situazioni sono 4:

  1. L’ostaggio sviluppa dei sentimenti positivi come simpatia, affetto, riconoscenza e anche amore, nei confronti del suo sequestratore. Da alcuni studi sul comportamento umano è emerso che atti visti come di “gentilezza” o cortesia da parte dei sequestratori, che banalmente possono essere garantire il cibo o lasciare utilizzare i servizi igienici, hanno un impatto benevolo sulla psiche dell’ostaggio. Tanto da far tralasciare la sua condizione di vittima e quasi da giustificare i comportamenti del suo sequestratore
  2. Non esiste nessun legame, rapporto e relazione precedente tra ostaggio e rapinatore. La vittima inizia a sviluppare dei sentimenti negativi nei confronti della polizia o delle autorità in generale. Alla base di questi sentimenti c’è inizialmente la condivisione di un ambiente e di una situazione isolata, lontano dal resto del mondo tra il sequestratore e la vittima. Questo sentimento di condivisione scatena nell’ostaggio avversione nei confronti di chi deve salvarlo che dapprima tarda ad arrivare. Poi “invade” il luogo di condivisione, spingendo la vittima spesso ad aiutare in caso di bisogno il rapinatore.
  3. Secondo gli esperti, un’importante situazione favorente (ma non indispensabile) lo sviluppo della sindrome di Stoccolma sarebbe la durata prolungata del sequestro. Un sequestro prolungato, infatti, farebbe sì che l’ostaggio conosca più a fondo il suo sequestratore. Entra in confidenza con quest’ultimo, fortifichi la simpatia e l’attaccamento nei suoi confronti, cominci a sentirsi dipendente da lui
  4. Sviluppo di senso di fiducia nell’umanità di chi lo ha sequestrato. L’ostaggio inizia a credere nell’umanità del rapinatore e più passa il tempo più il senso di attaccamento cresce. La vittima inizia ad avere paura non della sua condizione di ostaggio privo di libertà, ma inizia ad avere paura che qualcuno, intervenendo, possa fare del male al suo stesso carnefice. Questa fiducia nel senso di umanità del sequestratore non è dato tanto dal comportamento di quest’ultimo, ma è da ricercarsi nel credere che non abbia commesso atti di violenza ancora più gravi di quelli commessi: “Avrebbe potuto riservarmi un trattamento ancora più violento, ma non lo ha fatto…”

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Al prossimo articolo, un bacio, Miriana.

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