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Intervista a Cristiano Ruiu: Un percorso di Passione Pura

Intervista a Cristiano Ruiu: Un percorso di Passione Pura

Cristiano, hai detto che solo Maldini e Boban volevano davvero bene al Milan: in che modo con questa loro passione e visione si distinguevano rispetto alla nuova gestione?

Io non ho detto che solo Maldini e Boban volevano bene al Milan, io ho detto che dopo Berlusconi e Galliani si è succeduta tutta una serie di manager. I fatti accaduti, l’operato, i risultati e anche le dichiarazioni tutti questi manager, parlo a partire da Fassone, Mirabelli e poi tutti gli altri fino ad arrivare ai giorni nostri, hanno dimostrato che il loro primo interesse non era il bene del Milan ma erano altri interessi. A pensare male si potrebbero ipotizzare interessi personali.

E questo discorso del non avere a cuore il bene del Milan arriva fino ai manager attuali, che peraltro sono numerosissimi. Ci sono Furlani, Moncada, Scaroni, Ibrahimovic, solo per parlare di quelli più famosi, e poi ce ne sono tanti altri. Tutti questi prendono stipendi molto importanti e bonus molto consistenti.

Il Milan di quest’anno non fa la Champions League, quindi è reduce da una stagione orribile; ma la società fa utili e quando una società fa utili in qualsiasi azienda il management percepisce i bonus. Paradossalmente Furlani e company hanno preso i bonus per una gestione virtuosa, perché il Milan ha fatto utili in bilancio. Se gli utili arrivano dalla vendita dei giocatori oppure dalla Champions League poco cambia. I bonus sono per loro, poco importa se il Milan non ottiene risultati sportivi se riescono comunque a tirar fuori dei benefici personali.

Invece Maldini e Boban perseguivano innanzitutto il bene del Milan. Ovviamente lavoravano affinché fosse una società seria e credibile, solida, portavano la cultura del lavoro a Milanello e in sede. Tutti questi aspetti sono mancati sia prima di loro che dopo di loro, dalla gestione Fassone-Mirabelli a quella di Leonardo, per finire con quella attuale.

Se Maldini avesse voluto mettersi i soldi in tasca e basta avrebbe accettato immediatamente la proposta di Fassone-Mirabelli, invece l’ha rifiutata perché non gli sembrava serio quel progetto.

Boban, quando si accorse che l’autonomia della parte sportiva stava venendo meno perché loro, mentre lavoravano lui e Maldini con Pioli, intanto Furlani aveva già contattato Rangnick, fece un’intervista pesantissima che gli costò il licenziamento.

Boban poi fece causa al Milan, ma non era mica detto che prendesse i soldi: ha lasciato sul piatto un contratto in essere con conseguente perdita economica. Queste cose dimostrano che per questi due dirigenti la cosa importante era riportare il Milan in alto, non guadagnare loro i soldi.

Per Ibrahimovic invece non è importante portare in alto il Milan, ma prendere gli emolumenti che gli hanno garantito con un contratto che scade nel giugno 2026. A lui gli dicono di andare in conferenza, va in conferenza ed è pagato per quello.

Gli dicono che durante la stagione, con il Milan che perde, può pure andare in vacanza in Canada come ha fatto l’anno scorso, e ci va, tanto il suo stipendio lo prende ugualmente.

In generale, il lavoro di un manager o di un direttore non deve avere l’obiettivo di mettersi in tasca più soldi possibili, ma deve essere quello di far funzionare l’azienda e far star bene chi lavora per lui. Questa dovrebbe essere la mission di qualsiasi dirigente. Questa mission, a parte Boban e Maldini, nessuno l’ha mai perseguita dopo l’epoca berlusconiana.


Quando ti sei reso conto che la tua delusione per la nuova dirigenza era irreversibile? C’è stato un episodio preciso che ti ha fatto decidere di staccarti?

Ma non c’è stato un episodio preciso. Diciamo che l’evento-chiave è stato il famoso closing di Yonghong Li, l’ascesa al potere di Fassone e Mirabelli e la fine dell’epoca del Milan di Berlusconi. Poi, per quanto mi riguarda, l’episodio che ha costituito la linea di demarcazione è stata la querela che mi avevano fatto Fassone e Mirabelli, anche se arrivava alla fine del loro percorso.

Quella ha significato per me la fine di un rapporto stretto con l’universo Milan e poi è stata una cosa concomitante a livello cronologico con altre trasformazioni della mia vita perché, come spiegavo nell’altra intervista, quel periodo coincideva con il mio sempre maggior coinvolgimento lavorativo al Casinò e in generale nel mondo del gaming.

Le due cose sono state un po’ concomitanti, però ho percepito da lì che al Milan, con l’uscita di Berlusconi e Galliani, quel tipo di gestione era finita e stava terminando un’epoca, non soltanto dal punto di vista economico ma anche sotto molti altri aspetti.

Contemporaneamente il calcio italiano stava cambiando tanto, la professione di giornalista stava mutando ed è stato per me un po’ uno spartiacque per la mia carriera professionale.

Ovviamente tutti i Milan che si sono succeduti da lì in poi li ho sempre vissuti con grande amore, perché l’amore per questi colori non finirà mai: è nato da bambino grazie a mio papà e rimarrà con me fino a quando passerò a miglior vita. Però ho seguito con occhio più critico le evoluzioni e le azioni dei management che si sono succeduti.

A livello professionale ero meno vicino anche perché ero impegnato a occuparmi di altre cose, ma con questo non vuol dire che non abbia difeso e continuato a difendere il Milan, e che non abbia esultato e goduto per lo scudetto vinto nel 2022.

Un episodio invece che mi ha fatto molto piacere è stato quello che ha riguardato Boban. In piccolo ho rivissuto la stessa mia vicenda quando è stato fatto fuori Boban. In quel periodo lì nessuno poteva parlare o scrivere delle cose buone che aveva fatto il croato come manager.

Eppure, a livello di mercato, giusto per citare qualcuno, la gestione Boban-Maldini aveva portato Leao al Milan a bassissimi costi, gente come Theo Hernandez, Ibrahimovic, Bennacer, Kjaer ecc. ecc.

Mi ricordo che l’estate successiva io feci un articolo che invece elogiava Boban e il suo lavoro (calciomercato.com). Lui cercò in tutti i modi il mio numero di telefono e mi scrisse personalmente per ringraziarmi e complimentarsi per quell’articolo che non era altro che un esercizio di obiettività come ho sempre fatto.

Mentre in quel periodo per gli altri giornalisti era vietato parlare bene del lavoro che aveva fatto Boban. Lui l’aveva molto apprezzato, così come l’unico che non ha mai abbandonato Boban dopo che fu licenziato era stato proprio Paolo Maldini.

La stessa cosa poi è accaduta qualche anno dopo allo stesso Maldini quando è stato mandato via. Anche lui veniva giudicato colpevole di cose che non stavano né in cielo né in terra. Poi purtroppo, dopo l’addio di Maldini e conseguentemente di Pioli, le cose sono andate molto peggio.


Hai parlato di Ibrahimović come “parafulmine” mediatico dopo la sconfitta nel primo derby del 2023/24: secondo te quanto è stato un gesto più di marketing che di strategia sportiva?

Il ritorno di Ibrahimovic come dirigente si collocava alla perfezione in questo contesto temporale, perché il vero obiettivo di Furlani era quello di far fuori Maldini e Massara, come aveva fatto prima con Boban.

Ne approfittò perché il Milan quell’anno era arrivato “solo” quarto in classifica e in semifinale di Champions e, a suo avviso, non aveva performato abbastanza. Tra l’altro aveva ottenuto questi risultati con risorse economiche non ingentissime, molto inferiori a quelle degli anni successivi, cioè ai soldi che lui e Moncada avrebbero speso.

Di fatto mandò via Maldini e Massara non sostituendoli, dicendo: “Ci penso io, faccio io”. Poi però, come accade a quelli incompetenti del mestiere, finché il Milan ha vinto le prime partite con Pioli era tutto bello e diceva di aver azzeccato la scelta di licenziare Maldini.

Poi però perde brutalmente il derby e lì i tifosi iniziano a mugugnare. Allora lui cosa fa? Immediatamente dopo la sconfitta del derby fa richiamare Ibrahimovic dicendo che ha preso un’icona, un uomo di campo, così fa assumere Ibrahimovic.

Ma Ibra è molto diverso rispetto a Maldini. A differenza di Maldini infatti non ha il Milan nel cuore: storicamente ha sempre cambiato maglia a seconda delle proprie convenienze, soprattutto economiche. Lui torna al Milan dopo aver dichiarato che non voleva fare il dirigente, viene convinto a colpi di soldi, gli fanno un contratto praticamente da calciatore.

Paradossalmente quello stesso contratto che non avevano voluto fargli da calciatore quando lo chiedeva Maldini, poi gliel’hanno fatto come dirigente, che non era il suo lavoro.

La verità è che non basta un ex calciatore per fare il dirigente. Gli stessi Boban, Maldini, Leonardo hanno dovuto imparare tanti anni prima di diventare dirigenti. Ibrahimovic no. Senza esperienza è stato preso per fare da trait d’union con il campo, lo spogliatoio, Milanello e la società.

Scelta più sbagliata non potevano farla, perché già da calciatore Ibrahimovic è sempre stato egoriferito e poco uomo squadra. È diventato uomo squadra quando fisicamente non ce la faceva più a fare tutte le partite. Lo è diventato a 40 anni, in un Milan che però era molto coeso e ben organizzato con Pioli, con Maldini, con Massara.

Prima, da calciatore, quando si vincevano le partite era merito suo, quando si perdevano era colpa degli altri, e lo ha fatto in tutte le squadre dove ha militato creando sempre profonde spaccature nello spogliatoio.

Questo è proprio l’approccio peggiore per uno che vuole fare il dirigente. La mossa di Furlani, in accordo con Cardinale, era stata una mossa strategica per dire: “Ho mandato via Maldini, manca una figura calcistica di riferimento, così vi prendiamo Ibrahimovic.”

Chiaramente si è rivelata una scelta totalmente sbagliata, tranne che per le tasche di Ibrahimovic che si mette in tasca un bel po’ di soldini, fa fare un contratto in Primavera anche a suo figlio, ed è l’ennesimo stipendio che grava sui conti del Milan.

Guardando indietro, pensi che la chiamata a Ibra abbia aiutato più il club o la nuova gestione a proteggersi dalle critiche?

In parte ho già risposto nella domanda precedente, Ibrahimovic non ha aiutato nessuno, nel senso che è uno stipendio in più che ha gravato sulle casse del Milan. Lui ha creato tensioni, ha fatto dichiarazioni fuori luogo e poi ha dovuto lui stesso correre ai ripari. È sempre stato chiaramente subordinato a Furlani. Lui stesso ha capito che lo hanno messo lì per non contare nulla e dunque si è tirato subito indietro.

Si è messo a farsi gli affari suoi, a fare l’influencer, a pensare alle sue vacanze, i suoi giri, ai suoi business, alla sua immagine che è quello che gli è sempre interessato più di tutto e ha lasciato comandare il Milan agli altri.

Si è limitato a mettere le mani nel settore giovanile che interessava direttamente perché riguardava suo figlio, poi per il resto si è fatto ampiamente gli affari suoi.

Quando gli hanno chiesto di fare delle conferenze e anche di mettere la faccia su decisioni non sue, l’ha fatto tanto è pagato per quello. Nel suo ruolo di parafulmine per gli errori di questa società è stato “utilizzato” da Furlani e Scaroni. Però i nodi vengono sempre al pettine e il coro fuori da Casa Milan a fine stagione dimostrava che i tifosi del Milan non hanno l’anello al naso. Infatti non è che cantavano “Ibra vogliamo le dimissioni” ma il loro coro era “Ibra, Furlani e Scaroni vogliamo le dimissioni”.

Quindi mettendo in prima linea Ibra gli altri si sono risparmiati critiche o contestazioni solo per un periodo perché poi man mano che passava il tempo la gente ha cominciato a capire che chi comanda è Furlani, e se le cose non vanno bene è colpa sua e non di Ibrahimovic, che ha solo il torto di prendere 2/2,5 mln all’anno dal Milan per non fare niente ma non è che ha deciso lui di darsi quello stipendio. Lo hanno deciso Cardinale e Furlani.


Il passaggio dal calcio al mondo del gaming e del poker è insolito: cos’è che ti ha attratto di più di quell’ambiente quando ti si è presentata l’occasione nel 2010?

Io dico sempre che ho la fortuna di aver tramutato tutte le mie passioni in lavoro ed è una fortuna incredibile che auguro a qualsiasi giovane, qualsiasi persona. Io fin da piccolissimo avevo alcune grandi passioni, mantenute per tutta la mia vita, di tutte ne ho fatto un lavoro. Da bambino facevo le telecronache delle partite di Subbuteo e sono diventato telecronista e giornalista.

Giocavo con mio papà a Monopoli e l’ultimo mio business che sto portando avanti in Spagna è legato proprio all’immobiliare. E poi ho sempre avuto la passione del gioco delle carte, perché mio nonno, quello juventino di cui parlavamo, è stato nell’81-82 campione italiano di Scopa D’Assi e mi ha sempre inculcato la passione per le carte.

Io avevo una famiglia tradizionale, che si ritrovava spesso, solitamente trascorrevo la domenica a seguire le partite alla radio e a giocare a carte con il nonno, il papà, l’altro nonno. Scopa, Briscola, Scala 40, Ramino, Rebelot, anche Poker ecc.


Da piccolissimo al mare con il nonno e il papà facevo i tornei di briscola, uno l’ho pure vinto in Liguria a Loano. Ho sempre avuto la passione per le carte e per il gioco. Con il passare del tempo poi diventava sempre più grande la curiosità per il casinò, ho sempre guardato i film legati al mondo del casinò e del gioco. Poi all’epoca c’era quest’aura di mistero sul gioco. C’era quasi un alone di proibizionismo culturale applicato al gioco che in Italia, rispetto ad altri paesi, in parte ancora è rimasto. All’epoca ancora di più il gioco era visto come una cosa vietata, da condannare, pericolosa, illecita, era la Milano delle bische clandestine e andare al casinò era una possibilità che era riservata a una piccola élite.

Io giocavo tutte le settimane la schedina del Totocalcio con il papà, diciamo che ho sempre avuto questa passione. Da questo punto di vista devo ringraziare la mia famiglia che mi ha sempre consentito di divertirmi con la mia passione ma dandomi i valori, facendo in modo che fosse sempre e solo un divertimento, mai una dipendenza.


A un certo punto della mia vita poi, ho avuto la possibilità e l’ho colta di far diventare anche il gioco non solo una mia passione ma un lavoro.La storia è questa: è accaduto che nel 2003 ero in vacanza a St Martin, entro in un Casinò e vedo che stavano giocando a questo gioco nove persone intorno a un tavolo.

Stavano giocando proprio a Texas Hold’em, mi avvicino e mi siedo gioco 100 dollari e ovviamente li perdo subito. Ma mi incuriosisco e al mio ritorno in Italia ne con un mio collega di Antenna 3, il mitologico Alan Tonetti. Lui già giocava a poker online.

Eravamo agli albori del Texas Hold’em in Italia e vado con lui a giocare in uno dei primissimi circoli che organizzavano questi tornei. Roba da 20 euro, veramente for fun, si trovava a Cassano D’Adda. Lì imparo a giocare a Texas Hold’em ma era un semplice passatempo, un divertimento.

Avevo 25/26 anni e la mia vita era pane calcio e tv. Quando non ero in redazione giocavo a calcio,
tornei Acli, Uisp, Zonagoal, calcio a 5, a 7 e a 11, partite di beneficenza. Ogni sera che non ero in
diretta avevo una partita e da quel momento, spesso dopo le partite o dopo le dirette, andavo a
farmi qualche torneino.

In questo modo, ho imparato a giocare e sono entrato in quel mondo
affascinante che viveva in Italia una vera fase pionieristica.

Telelombardia e la sponsorizzazione del poker: quanto è stato un salto nel vuoto e quanto invece
un’occasione che sentivi già “giusta” per te?


Arriviamo all’episodio che è stato quello determinante nella svolta della mia carriera. Eravamo nel
2010 e il fenomeno del Poker in Italia, come in tutta Europa, stava prendendo davvero piede.
C’erano un sacco di siti che proponevano tornei e cash game, stava diventando un fenomeno di
massa, cosa che era avvenuta in America 10/15 vent’anni prima.

C’erano queste Poker Room online che successivamente sarebbero poi state inglobate dai grandi operatori di betting che
organizzavano, pushavano e incominciavano ad esserci interessi economici importanti attorno al
fenomeno del Poker, ovviamente tutto super legalizzato.

Cominciava a essere riconosciuto come
un gioco a soldi sì, ma di abilità più che di fortuna. La poker room online più importante in Italia era
“Gioco Digitale”, quel brand tutto arancione, una compagnia Italiana nata quasi per scherzo e in
pochi anni era diventata una potenza a livello economico.

Loro avevano deciso di pubblicizzare il
loro sito su Telelombardia, c’era un torneo che si giocava online alla domenica pomeriggio e
volevano spingerlo mediaticamente. Così decisero di fare un contratto con Telelombardia di 50
puntate televisive in cui veniva raccontato il torneo della domenica.

Le puntate venivano registrate il venerdì successivo su Antenna 3. Vengono quindi in redazione i dirigenti di Gioco Digitale per
parlare con Ravezzani che era il direttore. Lui non sapeva assolutamente di cosa stavano parlando,
non è mai stato un appassionato di gioco e non sapeva cosa fosse il Texas Hold’em.

A un certo punto esce dal suo ufficio e dice “ragazzi qualcuno sa che cos’è il Poker Texano?” io alzo la mano
esclamando “ogni tanto ci gioco” e mi fa “vieni dentro in ufficio”. Mi presenta il direttore
generale nonché proprietario di Gioco Digitale, mi espongono il progetto e capiscono di fatto che
sapevo di cosa stavano parlando. Anche se ero conosciuto per il calcio e per il Milan, mi
propongono di condurre questa trasmissione registrata tutti i venerdì sera in questo studio
bellissimo, avveniristico, che avevano costruito apposta nella nuova sede di Telelombardia. Inizio a
fare queste 50 puntate in cui raccontavamo i protagonisti dei tavoli e la cronaca dei tornei.


Volevano anche un volto femminile e all’epoca la mia partner delle trasmissioni su Antenna 3 era
Nathalie Goitom la più brava e la più sveglia. Quindi le conduciamo io e lei insieme divertendoci un
sacco. Inizio così a conoscere i giocatori di Poker forti, come Max Pescatori che era il più forte
giocatore italiano e aveva già vinto a Las Vegas tornei importanti ed era un loro uomo immagine.
Ma Gioco Digitale aveva poi anche degli eventi live, il circuito si chiamava Poker Gran Prix,
Sanremo, Venezia, St Vincent, facevamo anche le interviste nei casino.

E così incomincio ad entrare
in questo mondo a livello professionale dalla porta principale, perché di fatto lavoravo per il più
importante operatore italiano dell’epoca. Pur essendo un neofita avevo la fortuna di avere già la
credibilità del giornalista famoso e di condurre una trasmissione sponsorizzata da quello che
all’epoca era l’operatore più importante del settore.


Come è stato raccontare eventi live nei casinò da giornalista, in un mondo con dinamiche così
diverse dal calcio?


Era molto diverso. Io però ho sempre bisogno di novità e di stimoli nuovi. Dal punto di vista della
mia realizzazione professionale come giornalista che seguiva il Milan era il mio sogno da bambino e
l’ho raggiunto. Questa nuova opportunità di lavorare nel mondo del gaming è stata un’opportunità
d’oro per rompere anche la routine, la quotidianità. E poi per abbracciare un mondo totalmente
diverso, anche perché da giornalista sportivo io chiedevo sempre al giocatore, al dirigente,
all’allenatore il “favore” di concedermi un’intervista, una dichiarazione, una notizia. Invece qui era
tutto ribaltato, il giocatore di poker di fatto è una persona comune, normalissima che coltiva il
sogno di fare una grande vincita in competizione con gli altri, non una grande vincita alla roulette o
alla slot. Ma battendo gli altri giocatori. Più numeroso è il torneo, più è importante a livello
economico e di prestigio.

Nel mondo del poker tutti i personaggi che io ho incontrato sognavano di
diventare delle celebrità attraverso il poker e il segreto della popolarità del Texas Hold’em era ed
è proprio questa: cioè che tutti possono vincere, ovviamente ci sono i più bravi e quelli meno bravi
e la qualità conta come in tutte le cose della vita però a differenza di un calciatore che gioca
gli Interregionali e non può fare la Champions League, invece un pokerista che gioca nel circolo può
decidere di fare i mondiali di poker a Las Vegas e vincerli. La grandezza del successo e la
massificazione del poker è legata proprio a questo aspetto. Tutti hanno una possibilità, tutti
vogliono essere protagonisti e tutti vogliono essere personaggi.

Quindi la differenza a livello di
comunicazione era che io, per tanti anni, andavo a pregare di avere un’intervista da un
protagonista del calcio qua invece era al contrario, perché avevo la fila di gente che voleva farsi
intervistare e sognava che qualcuno raccontasse la loro storia. Partendo da questo presupposto,
ho sviluppato tutto un concetto di comunicazione. Il lavoro stava nell’andare a scovare le
informazioni più interessanti per il pubblico e raccontare la storia di questi giocatori. Dentro e fuori
dal tavolo verde. Per esempio un format che avevo inventato e ha avuto un grandissimo successo
nel periodo in cui ho lavorato al Casinò di Campione era quello della Hand Review, una sorta di
“moviola” delle mani di poker.

Faceva diventare tutti protagonisti e creava grande dibattito
all’interno della community. Io intervistavo giocatori famosi, forti ma anche comuni, interrogandoli
sullo sviluppo di una mano, facendo vedere le carte, i gettoni tutto live, giravamo direttamente sul
tavolo e mi raccontavano al microfono come andava giocata secondo loro quella mano.
Questo creava un dibattito, un interesse, un hype incredibile. Eravamo ancora agli albori dei social,
era il periodo in cui spopolava Facebook, questi video facevano miliardi di visualizzazioni, però
all’epoca non li monetizzavamo, questo era un format che avevamo inventato giusto per far capire
qual era la differenza di comunicazione tra il mondo del calcio e il mondo del poker.

Mi piaceva il fatto di impegnarmi su entrambe le cose e per tanti anni le ho fatte coesistere, dando la
precedenza ovviamente al mio lavoro da giornalista sportivo. Poi a un certo punto per i motivi che
spiegavo prima le due cose si sono ribaltate. Il mio lavoro principale è diventato quello di
occuparmi del gioco e poi in secondo piano il calcio. Ma all’inizio ero innanzitutto giornalista
sportivo e poi mi occupavo di comunicazione/informazione nell’ambito del Poker.
Quando Gioco Digitale ha cambiato proprietà, cos’è scattato in te per decidere di metterti
in proprio con un’agenzia piuttosto che restare sotto un marchio già consolidato?


Andando avanti con il racconto, realizziamo queste 50 puntate con un buon successo e Gioco
Digitale apprezza il nostro lavoro fatto, finisce il ciclo di puntate è proprio Gioco Digitale che mi
chiede di entrare a far parte del loro staff di comunicazione per raccontare come un vero proprio
inviato gli eventi live. 5/6 tappe all’anno nei casinò italiani che organizzavano i tornei del Poker
Grand Prix, con dei veri e propri tg a cadenza oraria, un live blog tv per raccontare i loro eventi.
Facciamo una stagione poi Gioco Digitale viene venduto a Bwin Italia che all’epoca era anche
sponsor del Milan. L’anno dopo viene venduto a PartyPoker, che aveva una filosofia di
comunicazione internazionale con il brand WPT e loro avevano il loro staff, così di fatto finisce la
mia avventura con quello che ormai era l’ex Gioco Digitale.

A quel punto ormai ero diventato conosciuto anche nell’ambito del Poker, non solo del calcio, infatti non capivo più su Twitter, su Facebook se la gente voleva sapere da me di calcio o di poker e tanti mi riconoscevano per strada
o per il calcio o il poker. Mi sembrava un peccato vanificare tutto quello che ero riuscito a costruire
nell’ambito della comunicazione del gaming e allora, con due miei grandissimi amici, Davide,
bravissimo come videomaker e Andrea, grafico eccezionale, entrambi giovani con idee fresche,
decidiamo noi di costruire una piccola agenzia con un suo brand e proporre alle varie case di gioco
servizi di comunicazione e marketing legati al poker o ai tornei di poker. Costituiamo questa società
e iniziamo a proporci sul mercato. Avevamo creato anche una linea di magliette per pubblicizzarci.
Ovviamente avevo tutte le conoscenze nel settore, iniziamo a proporci a tutti, dai piccoli circoli di
provincia ai grandi casinò provando a vendere il nostro servizio di comunicazione sul poker.
Era perfetto perché eravamo in tre, ognuno aveva le proprie competenze e quindi decidiamo di
dare vita a questa agenzia che si chiama YouPoker.


Qual è stata la sfida più grande nel trasformare la passione per i contenuti e i tornei in un
vero progetto imprenditoriale indipendente?


Il progetto imprenditoriale è nato intorno a una serie di circostanze e di sliding doors. Se non
avessero venduto Gioco Digitale a PartyPoker non mi sarei trovato a dover ideare qualcosa di
diverso e quindi a costruire un’agenzia mia con i miei soci. Le circostanze mi hanno portato a fare
queste scelte. Diamo così vita facciamo a un vero progetto imprenditoriale e la cosa difficile
ovviamente era trovare i clienti.

La comunicazione nel mondo del poker e in generale dei casinò è
sempre stata fatta in maniera poco professionale, da gente non professionista della materia. Era
anche il periodo che la gente non sapeva bene come fare comunicazione sui social, adesso le
nuove generazione sanno usare i social meglio di chi li ha creati ma all’epoca non era così. Molti
social di oggi non esistevano, Twitter era agli albori. Da parte nostra c’è stata anche una fase di
studio per poi creare prodotti interessanti ad hoc per i vari clienti. Un conto erano i prodotti per la
poker room del quartiere, un altro conto erano quelli per il casinò.

Quindi dovevamo modulare le varie esigenze e soprattutto, cosa non facile, trovare gente che era disposta a pagarli questi
prodotti. Questa professionalità andava venduta. Distinguersi agli occhi dei giocatori poteva essere
decisivo ma abbiamo fatto fatica a farlo capire ai potenziali clienti. Il primo che l’ha capito era un
hotel alle porte di Binasco che aveva una ex discoteca. A Milano era finito il periodo d’oro
delle discoteche e il proprietario Delio (che poi diventò un grande amico) aveva deciso di
convertirla in Poker Room con piccoli tornei.

Gli era piaciuta la nostra proposta di comunicazione e
dunque si era rivolto a noi e a un certo punto ci aveva lasciato carta bianca non solo sulla
comunicazione ma anche sulla creazione di tornei stessi. Era l’Hotel castelletto, è stata una palestra
decisiva per noi, fondamentale perché abbiamo iniziato non solo a creare prodotti adatti per una
piccola realtà, ma anche a entrare nella parte organizzativa degli eventi, una cosa totalmente
diversa. Bisogna imparare ad avere a che fare con il personale, con i dealer, che sono la cosa più
difficile da gestire, reperire e retribuire in maniera corretta per fare stare in piedi il business del
poker. È stata una scuola è stata una palestra molto molto importante per noi.


Ovviamente io approfittavo della mia fama all’epoca e la mettevo al servizio della Poker Room che
si chiamava Celebrity. Il giorno dell’inaugurazione avevamo organizzato un derby di poker e avevo
portato Gianluca Rossi, io con la maglia del Milan e lui con la maglia dell’Inter e avevamo fatto un
servizio fotografico proprio per lanciare la sala, quella fu una delle prime idee. Però sperimentando
fai anche tante cavolate quindi abbiamo fatto anche degli errori, è stata una vera e propria palestra
per la nostra agenzia. Il culmine lo abbiamo raggiunto quando abbiamo fatto una serie di tornei
con una classifica e siamo riusciti a portare le foto dei vincitori a Las Vegas, abbiamo collocato
queste foto nella hall nel casinò dove è nato il poker 150 anni fa, il Binions. A livello di
comunicazione fu un’idea pazzesca, fuori di testa. Idee come questa ci hanno fatto riconoscere non
solo come la prima agenzia che si occupava di comunicazione nel mondo del poker ma l’unica e
inimitabile.


Se guardi oggi il tuo percorso dal Milan al gaming e al marketing pensi di aver trovato una libertà
che il mondo del calcio non ti avrebbe mai concesso?


Diciamo che facendo tutto questo lavoro ci eravamo fatti notare da quello che sarebbe diventato
nel 2013 la più importante Poker Room a livello europeo, quella del Casinò di Campione. Il lavoro
fatto dalla nostra agenzia è stato importante. Abbiamo avuto la fortuna di avere un contratto con
il Casinò di Campione sempre legato alla comunicazione nel poker e questo ci aprì davvero le
porte nel mondo dei casinò. E questo mi fu il passaggio decisivo della mia carriera non più come
giornalista sportivo ma come uomo di marketing e comunicazione nel gaming, questa sicuramente
è stata la svolta.

Sicuramente se non fosse arrivata una proposta importante come quella del
Campione Poker Team, la nostra agenzia non sarebbe mai decollata e per me il mondo del
gioco sarebbe rimasto un divertimento, un passatempo, non avrei mai pensato di dedicare la mia
vita lavorativa a quello. Tu mi chiedi della libertà. Per libertà dipende da cosa intendiamo perché se
si parla di libertà critica, libertà intellettuale, libertà di pensiero, se fai con conoscenza il lavoro di
giornalista che è sempre quello che ho sognato e per cui ho sempre dedicato tutti gli sforzi nella
mia vita, la libertà non ha eguali, non c’è un lavoro più libero del giornalista, se lo fai con coscienza,
dignità e deontologia professionale.

Un lavoro di comunicazione e marketing non ti da la libertà
perché di fatto devi promuovere eventi e prodotti di chi ti paga, la differenza è fondamentale. La
mia prospettiva a livello di comunicazione è cambiata radicalmente, ma tutto questo si
sposava benissimo con i miei studi anche perché dopo il Liceo Classico, mi sono laureato in
Sociologia dei mass media e comunicazione.

La differenza, a livello di libertà, passando da
un lavoro di giornalista a un lavoro di comunicazione per aziende era evidente. Diventavo meno
libero dal punto di vista intellettuale. Se poi invece mi parli di libertà a livello economico,
ovviamente tra fare il giornalista e lavorare nel mondo del gaming, del marketing dei casinò a
livello ha comportato un netto cambio che mi ha permesso tante cose che probabilmente non mi
sarei potuto permettere precedentemente.

Io cercato di mantenere sempre le due dimensioni
presenti cioè di continuare a fare il giornalista nell’ambito calcistico e poi fare la comunicazione per
aziende di gaming. Due cose molto diverse che non si devono contaminare e che vanno tenute ben
distinte. Io dico sempre che uno ha davvero lo spirito giornalistico non fa il giornalista per lavoro.


Uno “è” giornalista e non smette mai di esserlo in qualsiasi lavoro faccia se l’approccio è quello
critico, quello della libertà di analisi, di espressione e di pensiero. Quello ti rimane in qualsiasi
lavoro fai, poi devi modularlo, adattarlo e in alcuni casi anche frenarlo, ma dentro ti rimane
sempre.

Intervista a Cristiano Ruiu: Un percorso di Passione Pura
Redazione The Digital Moon

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