Intervista Anthony e Rais Shelby: Due Identità in uno
Intervista Anthony e Rais Shelby: Due Identità in uno
Chi è Anthony e chi è Rais Shelby? Come convivono queste due identità?
Anthony è un ragazzo cresciuto in provincia, in mezzo a contrasti forti. Vengo da un contesto dove non tutto è facile, dove impari presto a stringere i denti e a porti delle domande. Ho sempre avuto la testa piena di pensieri e il cuore carico di cose che non riuscivo a dire. Ho fatto esperienze che mi hanno cambiato la pelle e il modo di vedere il mondo. Prima di tutto, sono una persona in continua ricerca: di senso, di libertà, di verità.
Rais Shelby è quello che succede quando tutto questo prende forma. Non è un personaggio o una maschera: è la mia voce quando smetto di censurarmi. È crudo, diretto, a volte scomodo, ma sempre vero. Rais nasce dal bisogno di raccontare quello che spesso resta taciuto, di trasformare la rabbia e il disagio in qualcosa che resta. Anthony e Rais non sono due entità separate: Rais è Anthony quando decide di mostrarsi senza paura. Convivono, si parlano, si ascoltano. A volte si scontrano, ed è proprio da quei conflitti che nasce la musica.
Quando hai capito che la musica sarebbe stata il tuo mezzo espressivo?
Non c’è stato un momento preciso, una rivelazione. È stato un accumulo. Una specie di urgenza che cresceva dentro e che poi ha trovato nella musica la sua via d’uscita. Nel 2008 provai a mettere quei pensieri su un beat, per puro sfogo, e mi accorsi che funzionava. Che finalmente riuscivo a dire qualcosa.
Col tempo è diventato inevitabile. Quando ti rendi conto che solo scrivendo e registrando riesci a stare meglio, a respirare davvero, allora capisci che quella è la tua strada. Non perché l’hai scelta, ma perché ti ha scelto lei.
C’è stato un momento o un evento preciso che ha segnato il tuo inizio come artista?
Ricordo una notte in particolare. Non riuscivo a dormire, avevo troppe cose in testa. Ho messo su una strumentale prodotta da Don Joe e ho iniziato a scrivere. Non lo facevo per fare musica, ma per liberarmi. E in quel momento ho capito che quella cosa aveva un peso, un senso. Che poteva trasformare il caos in qualcosa di vero.
Da lì non mi sono più fermato con la scrittura. La musica l’ho lasciata e ripresa più volte, ma scrivere è sempre rimasto. È diventato il mio modo per restare in equilibrio.
Quali artisti o generi hanno influenzato maggiormente il tuo stile musicale?
Ho sempre ascoltato quasi solo musica italiana, in particolare rap. Sono cresciuto con i dischi della Dogo Gang, quelli che ti davano quella botta di realtà senza filtri. Ma più di tutti mi hanno influenzato gli artisti della mia zona: The Next Diffusion, A.T.P.C., One Mic, Duplici, Funk Famiglia.
Essendo cresciuto a Vinovo, sentivo un richiamo naturale verso le radici musicali del mio territorio. Ascoltare chi l’aveva fatto prima di me, lì vicino, mi ha dato una spinta forte. Non era solo musica: era un ponte con la mia storia.
Che ruolo giocano le tue esperienze personali nei tuoi testi?
Nei miei testi ci finisce quello che vivo. Non scrivo per inventare, scrivo per restituire. A volte basta una frase, una giornata andata storta, un ricordo che torna.
Non filtro troppo: se qualcosa mi tocca, prima o poi finisce dentro un pezzo. Non cerco la perfezione, cerco qualcosa che mi somigli. E quello che mi somiglia viene sempre da dentro.
Come nasce un tuo brano, dal primo pensiero all’ultima nota?
Dipende dal tipo di pezzo. A volte parto da bozze di punchline, e costruisco brani più di “egotrip”. Altre volte ho pensieri più profondi e sento il bisogno di trasformarli in musica.
Di solito cerco un type beat con il mood giusto, poi inizio a scrivere. Quando il testo mi convince, vado in studio e registro.
A quel punto entra in gioco Nimso: rifà la strumentale, lavoriamo insieme sulle melodie e a volte mi aiuta anche nei ritornelli. Mi spinge a dare il massimo, senza forzature. Solo quando siamo entrambi soddisfatti, si passa a mix, master e immagine del brano. Ogni pezzo, per me, deve anche apparire come suona.
Hai una traccia che consideri il tuo manifesto artistico? Perché?
In realtà no. Non c’è un brano che mi rappresenti totalmente. Mi piace essere versatile, cambiare tono, contenuto, registro.
Ogni pezzo racconta una parte di me, ma nessuno basta da solo. Forse il mio manifesto non è una canzone, ma il mio approccio: dire quello che sento, senza filtri, senza fingere un’identità unica. Perché non sono mai solo una cosa sola.
Quali sono i temi ricorrenti nelle tue canzoni?
Scrivo spesso di ciò che mi manca, di ciò che mi pesa e di ciò che mi tiene in piedi. Ci sono la solitudine, la rabbia, il senso di non appartenenza, ma anche la voglia di riscatto.
Parlo molto di me, ma non per mettermi al centro. Piuttosto per cercare connessioni. Se racconto una mia ferita, magari assomiglia a quella di chi ascolta. E poi c’è il tempo: il tempo che scappa, che cambia le cose, che cura o distrugge. Scrivo quello che mi bussa dentro in quel momento.
Come descriveresti la tua visione del mondo, e in che modo cerchi di trasmetterla?
La mia visione è concreta. So che il mondo non è facile, ma non voglio cadere nel vittimismo. Osservo, cerco di capire, racconto quello che vedo con sincerità.
Nei miei testi provo a restituire uno sguardo lucido, mai forzatamente negativo. Racconto le contraddizioni, i momenti duri, ma anche quello che ti tiene in piedi. Non voglio insegnare niente, solo condividere una visione che nasce dalla realtà che vivo.
C’è un messaggio specifico che speri arrivi al pubblico attraverso la tua musica?
Non voglio dare verità assolute. Spero solo che arrivi il messaggio che c’è dignità anche nei momenti storti, nei pensieri scomodi.
Che ci si può sentire sbagliati, ma non per questo si è soli. Se qualcuno si ritrova anche solo in un verso, allora ha già senso.
Cosa ti spinge a creare, anche nei momenti più duri?
A volte non lo so nemmeno. Non è una scelta, è una necessità. Nei momenti più duri, scrivere è l’unico modo per non implodere.
Mi spinge il bisogno di mettere ordine, di dare un senso. Anche quando tutto sembra fermo o sbagliato, creare è l’unico gesto che mi fa sentire vivo.
Come immagini l’evoluzione del tuo percorso nei prossimi anni?
Non faccio troppi piani. Il mio percorso si è costruito passo dopo passo. Voglio continuare a crescere, evolvermi, trovare nuove forme per esprimermi.
Non inseguo le mode. Voglio fare musica che resti, non solo che suoni bene per un momento. E magari sperimentare anche fuori dalla musica, scrivere, collaborare, creare visioni.
Collaborazioni: sogni nel cassetto o progetti già in cantiere?
Entrambe le cose. Le collaborazioni devono nascere da connessioni vere.
Con i miei fratelli, di sangue e non – Sined Shelby, Eight Shelby, Rk Wolf e Nimso – abbiamo già lavorato a brani che usciranno presto. Con loro c’è un’intesa che va oltre la musica. E quando c’è quel tipo di legame, il risultato si sente.
Se potessi parlare al te stesso di dieci anni fa, cosa gli diresti?
Gli direi di non aspettarsi niente da nessuno. Di smetterla di cercare approvazione. Ma anche di non mollare. Ogni passo, anche quello sbagliato, porta qualcosa.
Gli direi di fidarsi di più di sé stesso. Di non vergognarsi della sensibilità, del dubbio, della fatica. Perché proprio quelle cose lì lo terranno in piedi.
Cosa vuoi lasciare al mondo come artista?
Non punto a lasciare un’eredità “grande”. Voglio solo che la mia musica arrivi a chi ne ha bisogno. Anche solo per un momento.
Vorrei lasciare qualcosa di autentico. Qualcosa che resti anche dopo il rumore. Se un giorno qualcuno troverà nei miei testi una frase che gli parla davvero, quella sarà la mia traccia.
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Redazione The Digital Moon
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