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Alberto Vecchiato si racconta: Attore e Amante della Natura

Alberto Vecchiato si racconta tra arte, fragilità ed empatia: attore autentico e amante della natura, in un’intervista sincera e ispirante.

Alberto, cosa ti ha spinto a scegliere la recitazione come strada?

La passione per la recitazione, in particolare, non so esattamente quando sia nata. Ricordo che da bambino spesso invitavo amici a casa e inventavo storie con marionette giocattolo, a cui io, nascosto sotto il letto, davo la voce. Ricordo i miei amici che si divertivano con me. Erano bei momenti di condivisione.

Passavo i pomeriggi a inventare storie con pupazzi e giocattoli, e poi sono arrivati i primi personaggi nel teatro parrocchiale, dove insieme a mio fratello ci divertivamo con tante belle persone. Alcune di loro ora non ci sono più, e ci tengo a salutarle perché, anche inconsapevolmente, mi hanno avvicinato a questa passione.

Com’è stata l’esperienza all’Accademia del Teatro Stabile del Veneto e cosa ti ha lasciato?

Mi sono diplomato all’Accademia d’Arte Drammatica del Teatro Stabile del Veneto. Sono stati tre anni intensi. All’inizio con un maestro di cinema e teatro molto esigente, Alberto Terrani (venuto a mancare da poco), e poi con altri insegnanti, ognuno portatore di metodi diversi.

Ricordo in particolare Karina Arutyunyan: oltre che una persona stupenda, una vera maestra di recitazione. Rigorosa, vera, sempre alla ricerca dell’unicità di ciascuno e della verità in scena. È lei che mi ha avvicinato a Stanislavskij, Strasberg e Meisner. Quei tre anni sono stati belli, duri, intensi, divertenti. E ho fatto tante amicizie.

Porto nel cuore gli spettacoli con Giorgio Sangati, quelli con Sandra Mangini e Giuseppe Emiliani, o con Paola Bigatto e Michele Casarin.

Durante l’Accademia ho compreso la forza e la potenza del cinema. Un workshop con Ivan Alovisio mi ha aiutato molto. Lui mi diceva che ero “fuori da me”, che indossavo una maschera. Quelle parole mi hanno portato a chiedermi quale fosse il motivo per cui recito: per essere libero, per liberarmi, per salvare e salvarmi. Per fidarmi delle mie immagini interiori.

C’è stato un graduale innamoramento nella possibilità di essere autentici in scena — che sia a teatro o al cinema. Oggi il video e il cinema mi emozionano di più, ma la ricerca della verità resta fondamentale in entrambi i mondi.

È sempre un lavoro di immaginazione, di abbandono a ciò che si vede, istante per istante, con precisione. Ecco perché continuo a frequentare corsi e workshop in Italia e all’estero, seguendo metodi che allenano immaginazione e verità (Strasberg, Chubbuck, Meisner, ecc.).

“Trittico Dantesco” è tra i tuoi lavori teatrali più belli: cosa ricordi con più emozione di quella produzione?

È stato il mio primo lavoro dopo l’Accademia. Ricordo la gioia di aver superato il provino. All’epoca abitavo a Padova, c’era il Covid, e facevamo le prove con le mascherine. Eppure il teatro era comunque pieno, per quanto possibile.

“Trittico Dantesco” mi ha impegnato per circa sei mesi nel 2021, tra prove e repliche. I testi erano meravigliosi, scritti da Fabrizio Sinisi, Fausto Paravidino e Letizia Russo. La regia era di Fabrizio Arcuri: sapiente, umana, vera. Un maestro di umanità.

Il progetto tentava di attualizzare le tre cantiche, e io interpretavo Dante in “Un Paradiso”. Questo mi ha permesso di esplorare le sue motivazioni in chiave contemporanea. Ricordo il tempo passato a interrogarmi su cosa significasse per me essere abbandonato, cosa significasse amare. Ad ogni prova, ad ogni replica, cresceva la consapevolezza.

Ricordo l’ultimo abbraccio tra noi e il pubblico. Ricordo la gioia e un po’ di malinconia, perché molti attori erano anche miei compagni di scuola.

Dopo il Veneto, ti sei trasferito a Roma: com’è cambiata la tua carriera e la tua visione del mestiere da quel momento?

Roma è stata fondamentale per iniziare a lavorare nell’audiovisivo. Ho trovato il mio agente, Cristian Davì (dell’agenzia Alex Pacifico Management), che ringrazio per la pazienza, l’empatia e la voglia di crescere insieme. È una persona speciale.

Roma è caotica, la ami e la odi allo stesso tempo. Ci vuole tempo per spostarsi, ma poi ti regala i suoi spazi: il verde, le persone, le opportunità artistiche. All’inizio non è stato facile. Sono andato via di casa a vent’anni, prima a Padova, poi a Dublino, poi a Roma dove vivo ora. Ma per quello che faccio, essere qui è fondamentale: produzioni, casting director… sono tutti qui.

“Mike” è stato il tuo primo red carpet alla Festa del Cinema di Roma: che effetto ti ha fatto quel debutto?

“Mike” è stato un film Rai molto stimolante. Il regista, Giuseppe Bonito, e il casting director Marco Donat Cattin hanno creato una squadra splendida. Ogni giorno di riprese (a Torino, per il mio personaggio) è stato emozionante.

Raccontare la storia di Mike Bongiorno, un’icona della TV, è stato motivo d’orgoglio. Ho letto la sua densa autobiografia: una vita incredibile, tra carcere, deportazione, viaggi.

Ho interpretato un giovane amico di Mike, Fanelli, cruciale nel momento in cui Mike torna negli USA dopo la deportazione. Ricordo la professionalità e la disponibilità della troupe.

Sul red carpet? Le gambe mi tremavano, ma ero felice. È stato un momento in cui mi sono detto: “Bravo, te lo sei meritato”. Spero sia solo il primo di tanti.

In “The Empress 2” hai interpretato un rivoluzionario italiano: com’è stato lavorare in una produzione internazionale?

Interpretare Adolfo Tadini in The Empress 2 è stato un enorme privilegio. Sono grato al mio agente, al casting director Armando Pizzuti, e ai registi Barbara Ott e Max Erlenwein.

È stato il mio primo ruolo importante nell’audiovisivo. La serie, distribuita da Netflix, ha vinto un Emmy con la prima stagione. Ho girato tra Germania e Repubblica Ceca tra ottobre 2023 e gennaio 2024.

Grazie all’acting coach Giles Foreman ho scoperto fin dai primi giorni quanto fosse ricco di significato quel ruolo. Il cast, il reparto costumi, la fotografia (con Kolja Brandt, che mi ha dato consigli preziosi) erano tutti di altissimo livello.

Interpretare Adolfo, un lombardo-veneto sotto il dominio austriaco, mi ha spinto a riflettere su cosa significhino davvero rivoluzione e libertà. Il suo non è un grido violento, ma una richiesta umana di essere ascoltati, riconosciuti, liberi.

Ho lavorato molto per costruire il personaggio: dossier storici, immagini interiori, emozioni. L’ultimo giorno di riprese, salutando tutti, mi sono commosso. Ho realizzato quanto potere abbia questo mestiere. Anche se difficile, anche se a volte ci sbatto la testa, è quello che amo.

Hai appena concluso un film italo-americano tratto da una storia vera: cosa ti ha colpito del personaggio che hai interpretato?

“Winter Harvest” è un progetto a cui tengo molto. Abbiamo girato tra Iowa e Veneto tra ottobre e dicembre 2024.

Ho interpretato Ruggero Volinia, un membro delle Brigate Rosse durante gli anni di piombo. Il film racconta uno degli ultimi sequestri compiuti dalle BR: quello del generale americano Dozier, responsabile Nato in Italia.

Mi sono documentato molto: documentari, libri, articoli. Poi ho cercato di entrare nelle motivazioni interne del mio personaggio: perché ha fatto certe scelte, quali ideali lo animavano, cosa significavano per lui libertà e giustizia.

È stato fondamentale anche il rapporto con la sua compagna, che lo porterà a decisioni cruciali. Ho studiato tanto in estate, cercando di avvicinarmi piano piano a lui.

È stata una delle esperienze più belle della mia vita. Max Leonida, il regista, e tutti i colleghi (Serena Limonta, Rose Aste, Giovanni Bonacci, Daniele Tessero, Nicolò Gorza…) sono diventati amici veri. Era anche la mia prima volta negli Stati Uniti: un’emozione totale.

Tra i tuoi lavori ci sono anche corti internazionali e in inglese: che stimoli ti dà il lavoro su progetti multilingue?

Adoro recitare in lingua. Parlo bene inglese (sia britannico che americano), francese e un po’ di spagnolo. Amo confrontarmi con culture diverse, restare aperto all’ascolto.

Recitare in una lingua diversa forse ti costringe ancora di più a rimanere presente, ad ascoltare davvero il partner, la troupe, il regista. Devi essere super recettivo, pronto, vivo.

Spesso suoni per strada con chitarra e armonica: cosa cerchi e cosa trovi in quei momenti?

Suonare per strada è una palestra di vita. Lo faccio spesso, tra un provino e un altro, o tra un lavoro e l’altro. Mi piace mostrarmi per quello che sono anche in quei momenti.

L’ho fatto a Roma, Padova, Venezia, Dublino, in Scozia… ed è sempre una questione di presenza. Le persone lo percepiscono se ciò che dai è vero. Se lo è, si fermano. Se non lo è, passano oltre.

Spesso sono i bambini i primi a fermarsi, ipnotizzati dal suono della chitarra o dell’armonica. La loro purezza è disarmante. Ed è quella purezza che cerco anche nell’arte.

Sei molto legato alla fragilità e all’empatia: come entrano nella tua vita la tua passione per il trekking e la natura, la meditazione e la mindfulness?

Mentre rispondo a questa intervista, sono appena tornato da una giornata immerso nella natura. Camminare, meditare, stare a contatto con il mondo naturale mi riporta alla mia luce, alla mia unicità.

Spesso ho paura di perderla, sommerso dalla velocità delle cose, dai social, dalle dipendenze. Ma la natura mi ricorda quanto la vita sia più grande. Quanto possiamo ancora stupirci di un tramonto, di un respiro, di un’onda. Semplicemente perché siamo vivi.

Faccio trekking in tanti posti: il Cammino di Santiago, Scozia, Irlanda, Isole Canarie, Iowa… Ogni volta è un ritorno alla connessione profonda con la vita.

Empatia e fragilità sono fondamentali. Ti mettono in relazione, ti liberano dai filtri, ti fanno amare sinceramente. Il mio lavoro è esposto al giudizio – spesso al mio stesso giudizio – ma la natura, la meditazione, l’empatia con l’altro mi aiutano a tornare qui. Ad accettare. Ad amare me stesso. A fidarmi.

Conclusione

Alberto Vecchiato si racconta tra arte, fragilità ed empatia: attore autentico e amante della natura, in un’intervista sincera e ispirante. Le sue parole ci ricordano quanto sia preziosa la connessione con sé stessi, con gli altri e con ciò che ci circonda. Un invito a vivere con più consapevolezza, sensibilità e libertà interiore.

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