Psicologia

Il pericolo della frase ‘Lo dico per il tuo bene’ nelle relazioni

“Lo dico per il tuo bene” è forse una delle frasi più ambigue che l’umanità abbia mai prodotto e che, da sempre, fa danni incalcolabili.

Sulle prime non sembrerebbe tanto pericolosa, ma basta addentrasi un poco nelle sue implicazioni per coglierne il potere ambivalente, ricattatorio, influenzante.

Implica che chi la pronuncia stia promuovendo una propria idea (consiglio o critica) su ciò che l’altro dovrebbe fare o non fare, o che ha fatto o non ha fatto. Un’intrusione quasi sempre non richiesta, ma giustificata dal fatto che viene mossa dal “bene”. Da un intento ispirato alla volontà di aiutare “nel modo giusto”, che sarebbe ovviamente il suo.

Egli infatti è mosso da questa equazione: «Se ho le migliori intenzioni, se il mio intento è amorevole, ciò che propongo/impongo sarà sicuramente giusto. Dovrà essere seguito, ascoltato, creduto». Un’equazione che, una volta applicata, distorce la comunicazione, disorientando e spingendo l’altro verso strade non autentiche, talora verso vere e proprie situazioni labirintiche.

“Ti critico perché ci tengo a te” è un’altra frase frequente, diretta emanazione della precedente: «Poiché voglio il tuo bene, ti dico che cosa non va». Il criticante si erge dunque a giudice della vita dell’altro -che non ha chiesto niente- e gli illustra tutte le sue mancanze e i suoi errori.

Certo non stiamo parlando qui di chi, una volta ogni tanto, si lascia scappare un consiglio o una critica, ma di chi, per abitudine, parla, argomenta, comunica infarcendo di consigli e di critiche le proprie conversazioni, con una forza di convincimento straboccante e, purtroppo, efficace.

È talmente abituato a farlo che ha affinato la capacità di dare consigli che contengano intrinsecamente una critica («lo, fossi in te, per come ti conosco, non farei un’altra, ennesima scelta così insensata»), o critiche che contengano consigli («Hai fatto una cosa talmente fuori luogo che ora la cosa migliore da fare penso sia la seguente»).

Non si trattengono. L’altro può stare zitto, può semplicemente raccontare. Può avere solo voglia di sfogarsi o di essere capito e ascoltato, ma l’azione sarà sempre questa: consiglio e critica a getto continuo, per il “suo bene”. Figuriamoci se chiede un consiglio o un’opinione.

Se ci riconosciamo in queste descrizioni, dobbiamo renderci conto che una simile modalità comunicativa non può che rovinare le relazioni.

Innanzitutto può indurre l’altro a fare scelte improvvide o a non fare scelte adatte. Può disorientarlo fino al punto da non fargli capire più niente; può farlo sentire inadeguato e insicuro. Uno può dire: «Ma lui può fare quello che vuole, io sto solo dando dei consigli. E le mie sono solo critiche innocue; se lui si fa influenzare è un problema suo!». Ma non è così: non sono semplici critiche e consigli, bensì frasi dall’elevato potere persuasivo, con un ricatto emotivo-affettivo incorporato (anche se involontario). Se l’altro si trova in un momento di fragilità o di dubbio, l’effetto manipolatorio (o comunque disturbante) si verifica quasi sempre.

Vi è poi da considerare la deriva che prendono le relazioni quando si ritrovano sature di questa comunicazione unidirezionale di consigli e critiche. Il Consigliato o Criticato a un certo punto non ne può più di questa ondata di frasi che lo fanno sentire inadeguato, pressato e si ribella. Ma poiché il Consigliere Criticante, per inerzia o per orgoglio, o perché ha una fiducia incrollabile nelle proprie convinzioni, non cambia atteggiamento (anzi, ci resta male!), egli è costretto a sottrarsi alla relazione, spesso in modo traumatico e non consensuale, e magari con il dubbio di sbagliare a farlo.

E poi ci sono da valutare i danni sulla vita relazionale proprio di chi ha consigli e critiche per tutti. È vero che la testardaggine di chi fa così, che si rivela nel non modificare la propria strategia comunicativa anche a fronte di palesi insuccessi o rimostranze, gli impedisce di prendere atto dei propri errori. 

Chi è sempre prodigo di consigli e critiche, anche quando ammette che questo schema non funziona, non sa più come fermarsi.

È come se non avesse altre modalità. Può tornare utile un concetto, che deriva dalla psicoterapia e dal counselling, per riassaporare un piacere nuovo nelle relazioni: si tratta del cosiddetto “ascolto attivo”. Cioè ascoltare l’altro, senza parlare, ma con un’attenzione speciale, che faccia capire all’altro che è ascoltato e capito, senza giudizi.

Non c’è da pensare a quale consiglio dargli, a quale critica fargli “per il suo bene”, ma solo a lasciargli lo spazio per sentirsi accolto.

Solo da lì, poi, potrà esserci un dialogo, un confronto, ma i consigli dovranno essere richiesti e, anche in quel caso, meglio essere cauti e aiutare l’altro a trovare dapprima la sua idea.

Per quanto riguarda le critiche, invece, teniamocele per noi. Lasciamo che sia l’altro a sviluppare uno sguardo obiettivo su di sé, senza il disturbo del nostro giudizio. Così il rapporto non si logorerà, l’altro ci sarà grato perché si sarà sentito ascoltato e compreso, e forse seguirà qualcosa, con modi e tempi suoi, di ciò che gli abbiamo detto. E noi stessi, invece di ripetere sempre le solite cose, avremo imparato un modo più soddisfacente e paritario di essere in relazione.