Cristiano Ruiu: Dalle cabine di montaggio al giornalismo sportivo
Cristiano Ruiu: Dalle cabine di montaggio al giornalismo sportivo Parte 1
Cristiano, partiamo dalle origini: si può dire che tu sia “nato milanista”. Quanto ha influito la passione di tuo padre e il legame con Carlo Pellegatti nella tua formazione?
Sì, sicuramente posso dire di essere nato milanista. Sono cresciuto negli anni ’80, un’altra epoca rispetto a oggi. Passavo tanto tempo nel negozio di mia nonna, davanti c’erano i giardinetti dove giocavo a pallone fin da piccolissimo. Poi c’era l’oratorio… insomma, il calcio è sempre stato una mia grande passione.
Mio papà era milanista, mentre mio nonno juventino, ma alla fine ha prevalso la fede di mio padre. Ricordo la promozione in Serie A e i primi anni in cui ho iniziato ad avere un vero rapporto col calcio. Erano gli anni di Farina, i primi in cui andavo allo stadio con mio papà.
Un ricordo nitido è la Coppa UEFA contro il Waregem: pareggiammo 1-1 in Belgio (gol di Virdis) e poi perdemmo 2-1 al ritorno. Ricordo la contestazione dei tifosi e io, che avevo solo sei anni, mi spaventai. Era il 1985 e c’era già tensione contro il presidente Farina, che poi sarebbe scappato in Sudafrica.
Poi è iniziata l’era Berlusconi. Ricordo un Milan-Sampdoria 2-2 dove per la prima volta comparve uno striscione “Silvio, Milano ti ama”. Da lì la mia fede per il Milan si è consolidata: era la mia ossessione da bambino. Il mio idolo era Pietro Paolo Virdis, e la prima maglia che ho avuto era la sua, la numero 11, anche se allora non c’erano i nomi.
Ho avuto anche la fortuna di vedere tutte le partite in casa nella stagione della prima Coppa dei Campioni. Una delle grandi delusioni della mia infanzia fu Milan-Real Madrid 5-0: avevo i biglietti in mano, ma mi svegliai con la febbre altissima e mia madre non mi lasciò andare allo stadio. Mio padre, per solidarietà, regalò i biglietti a un suo collega. Non gliel’ho mai perdonato… scherzo, ovviamente.
Il legame con Carlo Pellegatti ha influito tantissimo. All’epoca lavorava con mia madre in una ditta di spedizioni. Quando non potevo andare ai giardini, passavo il pomeriggio in ufficio con lui: il suo ufficio era il paese dei balocchi, pieno di foto, sciarpe, bandiere del Milan. Anche se lì non si occupava di calcio, si respirava Milan.
Carlo faceva le telecronache alla radio e io ascoltavo solo lui, non “Tutto il calcio minuto per minuto”. Era amico di famiglia, andavamo anche in vacanza insieme. Io mi divertivo a registrare telecronache casalinghe delle partite di Subbuteo di Carlo e mio papà. Il mio sogno era fare il telecronista del Milan. E così è iniziato tutto.
Tua madre lavorava con Pellegatti e fin da piccolo hai vissuto l’ambiente rossonero da vicino. Che ricordi hai di quei primi anni in cui il Milan era già una parte importante della tua vita?
Come accennavo prima, l’ufficio in cui lavorava mia madre insieme a Carlo Pellegatti era un mondo magico per me. Quando non c’era bel tempo, invece di giocare fuori, stavo lì. Pellegatti portava sempre con sé un pezzo di Milan: foto, gadget, telecronache. Per un bambino milanista, quello era il paradiso.
Quando Carlo ha cominciato a collaborare anche con Telelombardia, diventammo ancora più legati. C’era una trasmissione chiamata L’Accademia di Brera, perché l’ospite di punta era proprio Gianni Brera. Io ero nel pubblico e partecipavo come “piccolo intervistatore”. Una delle prime domande che feci fu a Carlo Ancelotti, nel 1989: “Tra campionato, Coppa Campioni e Coppa Italia, quale vorresti vincere?”. Mi rispose: “La Coppa Campioni”. Poi vinsero proprio quella. Vent’anni dopo, Fabio Ravezzani mostrò quell’intervista ad Ancelotti in diretta: fu una sorta di “Carramba” per entrambi.
Crescendo, ho iniziato ad andare in curva. Verso la fine del liceo, sempre tramite Carlo, iniziai a collaborare con Tiziano Crudeli a Golden Goal, la trasmissione della domenica sera su Telelombardia. Il mio compito era segnare i “timecode”, i momenti salienti delle partite. Era fondamentale perché ogni emittente doveva montare in proprio gli highlights. Lavoravo spesso 6 giorni su 7.
Facevo anche il montaggio video, che è stata la mia prima vera scuola: analogico, con le macchine a pre-roll di tre secondi. È lì che ho capito quanto il montaggio conti nella televisione. Impari ritmo, sequenza, linguaggio visivo. Un’esperienza fondamentale.
Il tuo primo lavoro a Telelombardia è arrivato molto presto, addirittura per la finale del 1989. Che emozioni hai provato nel vedere i tuoi primi highlights andare in onda?
Non era esattamente un lavoro, ma partecipavo spesso come pubblico attivo alle trasmissioni, già dai tempi di QSVS nell’86. C’erano maratone televisive lunghissime in occasione delle grandi partite, che iniziavano anche il giorno prima. Una delle prime a cui partecipai fu la finale Intercontinentale del 1989 contro l’Atlético Nacional. Si giocava in Giappone, alle 4 del mattino ora italiana.
Ricordo benissimo quella diretta: ero con mio papà in studio e, durante i festeggiamenti, venne ospite Silvio Berlusconi. Non era andato a Tokyo con la squadra, era rimasto a Milano. Fu la prima volta che lo incontrai, mi fece un autografo con dedica: “A Cristiano, piccolo milanista campione del mondo”. Lo conservo ancora oggi con affetto.
Durante un’estate hai iniziato a seguire il calciomercato a San Donato Milanese. Com’era l’atmosfera in quegli anni e cosa ti ha colpito di quel mondo frenetico?
Quell’estate mi chiesero di sostituire un collega, Simone Malagutti, al calciomercato del Crowne Plaza di San Donato. Era il 1999. Io avevo appena iniziato a fare qualche servizio esterno, come per la Stramilano, o piccole interviste. Ma questa fu la mia prima vera esperienza da “inviato”.
Il mondo del giornalismo era molto diverso da oggi: allora era fatto da persone più grandi, seriose, molto formali. Io, invece, ero un ragazzo della periferia, tifoso da curva, con l’aspetto da “tamarro” e pochissima esperienza. Ricordo bene la sensazione di disorientamento quando entrai nella sala stampa: tutti in giacca e cravatta, io con la felpa.
Provavo a farmi largo, anche se con molta timidezza. Una volta chiesi a Bargiggia se aveva novità e mi rispose seccamente: “Siamo qui per scoprirle, non per dirle a te”. Una bella lezione. Ma altri furono molto più disponibili: Luciano Passirani, ad esempio, all’epoca DS dell’Atalanta, fu uno dei primi a fermarsi per un’intervista e da lì nacque un rapporto di stima che dura ancora oggi.
Alla fine di quell’estate, TeleLombardia mi propose un piccolo contratto fisso. Guadagnavo pochissimo, 350.000 lire al mese. Fortunatamente mia madre mi dava i suoi buoni pasto, così almeno mangiavo gratis. Dovevo anche vestirmi bene, quindi spendevo più di quanto guadagnassi. Ma ero felicissimo: lavoravo con gente come Gianluca Rossi, Giovanni Guardalà, Andrea Cocchi, Fabio Santini e soprattutto Tiziano Crudeli. Ero il suo “ragazzo di bottega”(Ride): mi affidava tutte le cose che non voleva fare lui, ma era perfetto per me, perché spesso riguardavano il Milan.
Montavo i suoi servizi, preparavo interviste, andavo a Milanello al posto suo… era dura, ma bellissimo. Sei giorni su sette, dall’archivio alla redazione, passando per i Milan Club. Lì ho davvero iniziato a capire cosa significasse fare televisione.
Con l’arrivo di Fabio Ravezzani, la redazione di Telelombardia cambia volto. In che modo il suo approccio più giornalistico ha influenzato il tuo modo di lavorare?
Quando è arrivato Fabio Ravezzani, per me è stato un vero punto di svolta. Fino ad allora, la redazione aveva un taglio più da intrattenimento che giornalistico: si seguivano le partite, c’era un approccio più “naïf”, con il giornalista-tifoso, e poco spazio alla cronaca vera. Ravezzani ha portato rigore, metodo e una dignità professionale che prima mancava. Mi ha dato un contratto vero, umano, e persino delle giornate libere: fino a quel momento lavoravo praticamente sette giorni su sette. Ma soprattutto, ha trasformato il modo giornalistico di affrontare il calcio e Qui Studio a Voi Stadio è diventato il cuore pulsante dell’azienda. Per la prima volta, la redazione contava più dei personaggi.
Ha fatto crescere tanti ragazzi con fame e voglia di imparare, e ha insegnato loro a fare giornalismo vero, non i clown in TV. Io ero già lì da un po’, quindi ho vissuto quel cambiamento dall’interno, beneficiandone in prima persona. Fabio è stato il primo a dirmi che meritavo rispetto come professionista. E questo per me ha fatto tutta la differenza.
Nel 2000 inizi a seguire il Brescia e ti trovi a raccontare storie importanti come l’arrivo di Roberto Baggio. Che effetto ti ha fatto dare uno scoop così importante?
È stato pazzesco. Ravezzani ci chiese: “Chi vuole l’Atalanta? Chi vuole il Brescia?”. Il mio collega Simone Malagutti scelse l’Atalanta, a me toccò il Brescia. Una squadra piccola, sempre retrocessa in A, senza grande appeal. Ma quell’anno fu la svolta: il presidente Gino Corioni decise di puntare su Carlo Mazzone e su una squadra di giocatori esperti. Un giorno d’estate andai a Ospitaletto, dove c’era la sede della sua azienda, la Saniplast. Alla reception dissi: “Sono di Telelombardia, vorrei parlare con il presidente”. Dopo tre minuti scese Corioni in persona. Accendemmo la telecamera e lui, come se nulla fosse, disse: “Siamo ai dettagli. Domani arriva Roberto Baggio. Dopodomani lo presentiamo”.
Avevo appena realizzato lo scoop dell’anno. Il giorno dopo ero in prima pagina sulla Gazzetta. Era la notizia più clamorosa possibile: Baggio, appena fatto fuori dall’Inter, andava al Brescia. Ero arrivato da outsider e improvvisamente ero il protagonista. Da lì, mi cercarono anche media giapponesi interessati a Baggio: cominciai a collaborare con loro, integrando uno stipendio che all’epoca era decisamente “umile”.
Oltre a Baggio, hai seguito da vicino anche Pirlo, Luca Toni e Guardiola. Cosa ti ha colpito di più di questi campioni durante gli allenamenti o fuori dal campo?
La cosa più incredibile era la normalità con cui vivevano. Andavamo agli allenamenti e ci trovavamo a pochi passi da Baggio, Guardiola, Pirlo. Mazzone ci lasciava restare a bordo campo. Io avevo vent’anni e mi trovavo in mezzo a dei mostri sacri, ma con l’accessibilità di una realtà di provincia. Ero uno di loro, avevo la loro età: la sera andavamo a cena insieme, poi al Circus, la discoteca di Brescia.
Guardiola era un po’ fighetto, da bravo catalano, ma si calò bene nella realtà. Pirlo, Diana, Bonera… persone alla mano, amici veri per me. E poi Baggio, che era l’antidivo per eccellenza: faceva la spesa col papà, portava in giro i cani con la macchina più brutta della mia, giocava a scopa bevendo il grappino in ritiro. Una disponibilità incredibile, soprattutto con i media giapponesi.
Hai vissuto quattro anni intensi a Brescia, con Carlo Mazzone come figura di riferimento. Cosa ti ha trasmesso umanamente e professionalmente?
Tutto. Mazzone allenava tutti: squadra, dirigenti, tifosi… e anche noi giornalisti. Dopo le conferenze si fermava a spiegarti calcio, dinamiche, vita. Mi chiamava “domandino”. Mi prese in simpatia e mi trattava come un nipote, ma se facevo domande sbagliate, mi “cazziava” senza problemi. Un maestro vero, che mi ha lasciato insegnamenti indelebili. Il rapporto con lui è stato umano prima che professionale, ed è uno dei più belli che ho avuto in carriera.
L’11 settembre 2001 è una data che hai vissuto in modo molto particolare, insieme a Mazzone. Puoi raccontarci cosa è successo quel giorno e cosa ti è rimasto dentro?
Mi presentai al campo con la mia Fiat Punto azzurra, la musica a palla. Era martedì, giorno di ripresa degli allenamenti. C’era solo Mazzone. Mi vide e mi disse: “A regazzì ma che cazzo stai a fa’ qui? Nun hai visto che è successo a Nuova Yorke?”. Mi portò nel suo ufficio, accese la TV e mi spiegò cosa stava succedendo: il crollo delle Torri Gemelle, l’inizio della guerra. Poi mi disse: “Adesso mi accompagni in hotel. Non voglio che ti rimetti in macchina”. Passammo la serata insieme, a parlare, riflettere. È un ricordo che mi porto dentro, con una gratitudine immensa.
Quell’esperienza personale con Mazzone sembra averti segnato profondamente. In che modo ha cambiato il tuo modo di vedere il calcio e la vita?
Con Mazzone ho imparato che il calcio è solo una parte della vita. Che si può essere professionisti senza prendersi troppo sul serio. Che l’empatia, la cultura, il rispetto per le persone contano più delle tattiche. Vivere quell’esperienza con lui, in un momento così drammatico come l’11 settembre, mi ha fatto capire quanto sia importante restare umani, prima ancora che giornalisti. Mi ha insegnato a leggere il mondo, non solo il campo.
Guardandoti indietro, da quel ragazzo che montava gli highlights nel ’98 al giornalista che firma scoop in prima pagina, qual è stato il tuo vero “turning point”?
Il turning point è stato proprio lo scoop su Baggio. Prima, quando seguivo il Milan, ero sempre “il vice di Tiziano Crudeli”. Con il Brescia ero la prima firma, e quella notizia clamorosa mi ha dato consapevolezza. Da lì in poi, ho iniziato a pensare da giornalista.
Ravezzani è stato fondamentale. Mi ha dato fiducia, ma anche bastonate. Con lui ho imparato che il giornalismo vero richiede indipendenza di pensiero. Che puoi essere tifoso, puoi avere simpatie, ma devi essere libero intellettualmente. Io a Telelombardia sono sempre stato libero di criticare anche il Milan, senza pressioni. E grazie a quel lavoro, mi sono costruito una vita: la mia prima casa, le mie vacanze, le mie piccole soddisfazioni. Non era solo un sogno, era la mia realtà. E me la sono guadagnata tutta, passo dopo passo.
Redazione The Digital Moon
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