Cronache

Le periferie, un angolo silenzioso di donne inesistenti

Si chiama “Voci di donne dalle periferie.” Si tratta di un interessante studio pubblicato dall’associazione onlus “WeWorld”, condotto nelle periferie di alcune città italiane. Lì, dove è risaputo ci sia un’alta percentuale di famiglie che vivono disagi economici e dove si è visto che una donna su due subisce violenza domestica, molto spesso davanti ai propri figli.


“Mi ha trascinato fuori dalla macchina per picchiarmi. Davanti alle bambine. La grande ha visto sempre tutto. Me l’ha devastata”.

Così racconta Lucia, di Palermo, 35 anni e 2 figlie. Ovviamente, Lucia è un nome di fantasia.

Grazie a questa ricerca, tante donne delle “periferie”, come Lucia, hanno potuto avere voce. Raccontando la loro vita e le loro esigenze, mettendo in risalto le loro potenzialità e le capacità che possiedono. Analizzando attentamente la quotidianità vissuta, attraverso la loro storia, si è potuto comprendere quali risorse abbiano a disposizione e come poterle utilizzare per dare il via a quel cambiamento, necessario per favorire l’inclusione delle protagoniste e delle loro famiglie e, quindi, rigenerare le periferie in cui vivono.

37 sono state le donne intervistate, di età compresa tra i 16 ed i 61 anni, le quali vivono nelle periferie delle città metropolitane di Milano (Milano Nord), Roma (San Basilio), Napoli (Scampia) e Palermo (Borgo Vecchio). La maggior parte sono italiane, hanno figli ed un titolo di studio medio-basso. Solo 1 donna su 3 dichiara di avere un’occupazione, ma molte decidono di non lavorare più, per molteplici motivi, primo fra tutti la nascita del primo figlio. Non si può tenere in considerazione, però, che la fuoriuscita dal mercato del lavoro, per alcune di loro, è legato principalmente ad esperienze di violenza domestica. Si può benissimo comprendere come questo tipo di situazioni incida pesantemente anche sulla vita lavorativa, peggiorando ulteriormente una volta che se ne allontanano del tutto. Infatti, c’è chi deve, per prima cosa, riprendere la fiducia in sé stessa, attraverso percorsi di aiuto che prevedono anche l’inserimento lavorativo.

La loro quotidianità è caratterizzata da un elevato grado di isolamento sociale. La giornata è divisa tra dedizione completa alla famiglia ed allo spazio domestico, suddividendo, quindi, il loro tempo tra accudimento dei figli, spesa alimentare, pulizia della casa e cura dei mariti. La loro vita sociale è molto limitata. La maggior parte, infatti, non ha amiche e non esce di casa, se non per spese o per le attività dei figli. Le uniche relazioni intraprese “permesse” sono con altre donne della cerchia familiare. Mentre sono quasi del tutto assenti i rapporti con gli “estranei”, come le altre mamme della scuola o con le vicine di casa. Questo per non permettere loro di avere stimoli e “picci” che le potrebbero allontanare dal controllo del marito.

Si è visto, inoltre, che è alquanto raro che queste donne si spostino dal quartiere in cui vivono.

Tutte hanno in comune l’identificazione nel ruolo di mogli e madri, col conseguente completo annullamento del loro essere donne e persone.

Un aspetto rilevante è la presenza di un modello familiare tradizionale, con un rapporto di coppia basato sulla divisione di ruoli. La donna si occupa dell’andamento domestico e dei figli, mentre l’uomo lavora e porta i soldi a casa. Dalle interviste, è emerso che le protagoniste non frequentano gli spazi pubblici dei quartieri dove vivono, né tantomeno si spostano in altre zone della città. La scarsa propensione alla mobilità è data dall’isolamento sociale e dal fatto che non abbiano né patente né un’auto a disposizione.

La caratteristica universale in tutti i racconti è la completa mancanza di libertà, uno status quo che è considerato “normale” in queste situazioni di alto degrado culturale.

Ero praticamente barricata in casa”; “Dentro casa mi metto il vestitino. In casa sì, con le finestre chiuse però. Fuori mai. A lui non piace”, “Mi torceva il braccio se io decidevo di comprare per pochi spicci una stoffa per fare un copriletto”.

È abbastanza chiaro che la violenza sulle donne si basa su stereotipi radicati nella società, che colpiscono gravemente l’identità e la dignità delle stesse, oltre che su una cultura che non educa per niente alla parità di genere. Infatti, basti pensare che secondo il 19% degli intervistati, è NORMALE “fare battute e prese in giro su sfondo sessuale” e per il 17% è LECITO “fare avances fisiche esplicite”.

NORMALE.

LECITO.

Numeri e situazioni che ci dovrebbero far riflettere. E che portano inevitabilmente a chiederci se una tale condizione sia solo di donne che vivono una certa situazione socio-economica. La risposta è “NO!”. Siamo tutte vittime della stessa cultura. Solo che mentre molte hanno gli strumenti per potersi difendere, altre, invece, non riescono a farlo, credendo che quello che vivono sia appunto “normale”. E lo studio condotto da “WeWorld” doveva servire anche a questo, a capire cosa si ha, per poterlo sfruttare al meglio ed uscire dalla situazione di disagio.

La nostra società non aiuta molto a questo cambiamento, devo dire. È noto a tutti come la stessa sia basata su un modello familiare alquanto patriarcale e su una cattiva identificazione economica della donna, che la porta ad essere considerata ad un livello inferiore, in ogni ambito della sua vita. Il superamento di questo prototipo di società è abbastanza lontano, oserei dire quasi del tutto utopico, ma dovrebbe portarci ad una maggiore consapevolezza della condizione odierna della donna e, quindi, all’isolamento sociale di chi usa la violenza.

E le istituzioni in tutto ciò che ruolo hanno?

Sicuramente uno dei più importanti. La politica ha uno dei ruoli essenziali, in quanto dovrebbe fare leggi a tutela delle vittime. Leggi che saranno, poi, applicate da un apparato giuridico sensibile e preparato. È ormai agli onori della cronaca come, ancora, una donna vittima di violenza non si senta tutelata e protetta, come sia difficile essere compresa, sostenuta, difesa. Ed in caso di disagio economico, in aree “dimenticate”, la situazione peggiora ulteriormente.

Secondo il mio punto di vista, il ruolo della scuola è fondamentale. Dovrebbe partire tutto da lì! Già all’asilo, ai bambini, sia maschietti che femminucce, dovrebbe essere insegnato il rispetto verso il prossimo, come base di ogni rapporto. Medie e superiori racchiudono, poi, le fasi più “delicate”, dove un’ottima educazione sessuale aiuterebbe a non creare danni irreversibili, ovviamente con un valido supporto psicologico.

L’istituzione scolastica rappresenta quello spaccato di società, dove dovrebbe essere insegnata la civile convivenza. Con questo non voglio certo dare delle “colpe”, ma non posso non sottolineare la responsabilità morale ed etica di quegli adulti che, insieme ai genitori, dovrebbero collaborare attivamente alla crescita dei bambini e dei ragazzi.

Responsabilità che, comunque, hanno gli insegnanti e che sottovalutano! Si inizia da piccolini, dove i grandi non dovrebbero invitarli a rispondere con le mani, qualora dovessero ricevere delle angherie, ad esempio. Violenza richiama violenza e questa non è la soluzione migliore. L’insegnamento del rispetto verso l’altro è il primo passo per far crescere futuri adulti SANI.

E la famiglia? Altra nota dolente! Ci sono famiglie dove l’attenzione verso questi temi è alto, ma in altre, troppe, l’egemonia maschile sulla donna è ancora molto forte ed influenza il futuro dei piccolini, i quali crescono con modelli di adulti SBAGLIATI.

Basterebbe che queste tre istituzioni si parlassero, agissero insieme per “creare” futuri adulti SANI ed EMANCIPATI.

Ma, nel frattempo, di cosa abbiamo bisogno?

Di certezze, prima di ogni altra cosa!

Tutte le donne dovrebbero conoscere cosa fare, grazie alle iniziative, come quelle di prevenzione, delle istituzioni. Non è possibile che, ancora oggi, ci siano donne, come quelle della “periferia” appunto, che non abbiano un lavoro. Molto spesso non viene permesso loro di studiare, non possano instaurare relazioni e debbano annullarsi completamente. Ogni donna ha la sua storia e deve essere lei stessa artefice del cambiamento della sua condizione. Le istituzioni devono essere in grado di analizzare gli strumenti che si hanno ed aiutare in base agli stessi, senza giudicare e senza far sentire la vittima inadeguata o, peggio, farle capire che tutto ciò è NORMALE.

Fin quando, però, troppi si tapperanno gli occhi e non affronteranno il problema, o fin quando parecchi si volteranno dall’altra parte, spostandosi dalla parte dell’omertà, invece di quella della denuncia, la situazione sarà sempre così scabrosa. Una presa di coscienza aiuterebbe tutti, istituzioni, società, donne, uomini, a cambiare rotta. Quando accadrà, non si parlerà più di prevenzione, di tutela, di certezze, ma solo di brutti ricordi.